DIVIN VIAGGIO - Le Tuscolane e le altre - Il vino una liaison dangereuse per le donne


Tuscolana baciami e ti dirò se sarai ancora mia moglie! Lo ius osculi era uno dei metodi dei mariti romani che volevano provare la sincerità delle mogli di fronte alle menzogne sul vino. Nella Roma antica infatti il vino era proibito, de iure e de facto. Ai mariti invece i brindisi erano consentiti, e immaginiamo quanti ne venivano fatti nei simposi delle ville tuscolane. L'uso era quello di brindare per la donna amata  con kyathoi (coppa) uno dietro l’altro quante erano le lettere che componevano il nome di lei. Così ricorda Marziale: “Sette calici a Giustina, a Lavina sei ne bevi, quattro a Lida, cinque a Licia, a Ida tre. Col Falerno che versai numerai ogni amica, vien nessuna; dunque, o Sonno, vieni a me”.

Il nettare degli dei legato alla sfera del sacro, era proibito alle donne almeno sino all’età repubblicana. Sino ad allora per sorseggiarne solo a scopo terapeutico ci voleva l’autorizzazione del Pater familias. Per bere durante i pasti o meglio, a cena, le donne avevano a disposizione bevande meno alcoliche, aromatizzate e dolciastre. Insomma vino “annacquato” mescolato in crateri di foggia e materiali diversi. Dionigi di Alicarnasso (seconda metà del I sec. a.C.) testimonia l'esistenza, fra le cosiddette leges regiae, di un provvedimento attribuito a Romolo che permetteva al marito di mettere a morte, d'accordo con il consilium domesticum, la donna che fosse stata sorpresa a bere vino puro o soltanto ad entrare nella cantina, di cui non possedeva le chiavi. Commetteva cioè un reato equiparato, per gravità, all'adulterio. Ovviamente vi erano delle deroghe ma solo per le donne anziane - come spiega Varrone - a loro era concesso bere vina secundaria: le nostre antenate, bevevano lora, vinello, sapa e defrutum, vini cotti, passum, passito o muriola, vino profumato di mirra, che Plauto chiama murrina.
Giulia, figlia dell'imperatore Augusto
Con il passare dei secoli questa severità si attenua e la pena diventa solo pecuniaria, come dimostra una sentenza di divorzio per ubriachezza riferibile al 192 a.C. Durante il II secolo a.C. il vino, ricorda Svetonio; divenne alimentum per la popolazione maschile e probabilmente di riflesso, cessò di essere rigidamente proibito anche se socialmente ancora ritenuto riprovevole, per le donne. A sua figlia Giulia, Augusto esiliandola per adulterio, proibì di bere vino.
Livia Augusta, moglie dell'imperatore
Mentre Livia Augusta, che morì a 86 anni, donna intrigante e colta, attentissima alla sua dieta, pare bevesse vino come elisir di lunga vita. Un consiglio del suo  archiatra Asclepiade che ne raccomandava un solo tipo il Pucinum. Questo con apparente semplicità è ciò che tramandano le fonti, anche se la ricerca archeologica attenua l'assolutezza del divieto, già in età arcaica.
 Le tombe femminili rinvenute nelle necropoli di Castel di Decima, sulla via Laurentina e quelle dell'Osteria dell'Osa,('VIII-VII sec. a.C.) contenevano anfore vinarie e altri oggetti da banchetto legati al vino come i vasi acqua-vino e le coppe. E per il periodo successivo, in particolare quello compreso tra la fine della repubblica e il primo impero, si aggiungono le testimonianze degli affreschi, della ceramica, dei mosaici – soprattutto pompeiani – che attestano un uso femminile del vino. Letteratura, arte ma non solo anche le epigrafi allargano l’indagine sul tema di vino e donna.
Tomba femminile Castel di Decima (Roma, Laurentina)
A Pompei, Calpurnia nel I sec. d.C., non solo aveva accesso al vino ma di professione faceva l’ostessa.  Naturalmente, come ancora sino a decenni fa accadeva le donne che lavoravano nei locali pubblici, e in particolare quelle che servivano i clienti nelle tabernae  erano tacciate di infamia e – come le attrici, cantanti e ballerine – erano equiparate dal diritto romano alle prostitute. Esse avevano dunque accesso al vino, così come ad altri 'piaceri' proibiti alle matrone. Difficile capire questi atteggiamenti duplici se non si chiarisce che anche allora c’era vino e vino: vino buono e vino annacquato diremmo oggi, un 'vino proibito', e un 'vino consentito' che poteva costituirne il corredo funebre; ed essere bevuto senza compromettere le virtù di una bona femina. Isidoro, tra VI e VII sec. d.C., riporta un passo di un'opera in difesa della verginità del Padre della Chiesa Girolamo (IV sec. d.C.), in cui il consumo di vino è dipinto come potenzialmente mortale per le giovani, una sorta di venenum. Il vino dunque era considerato in modo ambivalente, non solo per il gentil sesso, ora medicamento ora veleno: «Adolescentulas…ita vinum debere fugere ut venenum, ne pro aetatis calore ferventi bibant et pereant». Solo una questione religiosa? «vide, quibus causis vini potio concedatur: vix hoc stomachi dolor et frequens meretur infirmitas». L'ambiguità del vino, inteso sia come medicamentum che come venenum, già notata in relazione alla società maschile, si fa più marcata e oscilla decisamente verso il polo negativo quando ne fanno uso le donne, soprattutto a causa delle sue presunte proprietà anticoncezionali e abortive. Tra la fine del periodo repubblicano e i primi secoli dell'impero contraccezione e aborto si intensificarono tra le matrone, soprattutto tra quelle appartenenti ai ceti dominanti ma anche inferiori, e il medico greco Sorano consigliava come eccipiente per decotti della dieta abortiva, l’ acetum mielato.

 



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