LA BANDIERA DELLE DONNE, STORIA AL FEMMINILE DEL TRICOLORE


Bologna 1796: “Brigida Zamboni e Barbara Borghi condanniamo a perpetua reclusione in una casa di correzione fuori della Legazione (in S. Michele a Roma ) colla confisca ecc

Modena 1831: A Reggio Emilia la contessa Rosa Testi Rangoni viene condannata a tre anni di reclusione, Giudita Bellerio Sidoli lascia la città per un lungo esilio. A Venezia Entrichetta Castiglioni muore in galera dove era stata imprigionata per i moti di Modena.  

Venezia 1853: Venezia la contessa Montalban Comello fu condannata a sette mesi di carcere duro.

Tre date, tre storie di donne cucite con ago e filo di seta, legate da tre colori: il verde, il bianco e il rosso. Tre storie diverse che ruotano introno al tricolore. Storie che hanno assemblato e unito non solo scampoli di stoffa ma ideali di emancipazione e libertà dallo straniero. Cucire e ricamare, attività manuale, prevalentemente femminile  ma anche di pazienza e d’ingegno rivoluzionario. Attività essenziali nella vita quotidiana sinonimo delle virtù domestiche, piccole tracce significative di un lento cambiamento della donna nella società ottocentesca. Cucire, un  paziente attività  da svolgere  nell’interno della propria casa, da sole o in compagnia. Cucire, un lavoro attorno al quale si parla, si spera, si fanno progetti. Cucire un moto dello spirito legato soprattutto ai ceti borghesi medio-alti, a donne colte che per amore e spesso per condivisione di un’ideale hanno dedicato la loro vita alla causa patriottica. Tutte unite da tre colori simbolo della futura Italia: verde, bianco e rosso. Le donne del tricolore sono tante, ricordate come eroine al volgere del XIX secolo, poi dimenticate. Questa è la storia di alcune di loro. Una breve riflessione su due donne bolognesi ormai sconosciute ai più, ree di aver confezionato coccarde tricolori, una nobildonna veneziana che partecipò alla rivolta veneziana e all’eroica Giuditta Bellerio Sidoli, donna d’ideali patriottici già prima di incontrare e amare Giuseppe Mazzini. Cucire  primi anni del XIX secolo fu anche un atto rivoluzionario come scrivere e organizzare incontri musicali e letterari nei “salotti “delle loro dimore signorili ed eleganti. Cucire e ricamare atto concreto per materializzare gli ideali di libertà e affrancamento dallo straniero che si materializza in un simbolo potente come quello di una bandiera, un vessillo, una coccarda. Un oggetto concreto che le donne realizzano anche per tenere insieme gruppi carbonari e cospiratori. Un tricolore, oggetto simbolico nascosto nell’abbigliamento come le giarrettiere sotto lunge gonne o le trine che si lasciano intravedere sotto i polsini dei corpetti. Tricolore esibito con sciarpe e coccarde nei momenti di giubilo. Ma prima che il Corriere del 1848 potesse dedicare un servizio sull’abbigliamento della famiglia patriottica, il silente lavoro di tante donne è significato anche torture, condanne, abbandono della famiglia, esilio.

La storia delle donne del tricolore inizia la mattina del 25 agosto 1795 a Bologna. In un aula di tribunale si allestiva la sala dei “tormenti”. Si preparava una lunga tavola con tappeto nero, dietro, le poltrone per i membri della Congregazione Criminale del Tribunale del Torrone. Quella del Cardinale Presidente dominava le altre ed era coperta di velluto rosso e oro con lo stemma Pontificio. In mezzo alla tavola la clessidra, un Cristo di metallo, sei candelieri. Si celebrava il processo Zamboni- De Rolandis per la sommossa bolognese del 13 e 14 novembre dell’anno precedente. Il moto non ebbe esito positivo e i due giovanissimi studenti universitari furono scoperti, catturati e rinchiusi nelle carceri del Torrone, insieme ad altre diciannove persone. Luigi Zamboni fu trovato morto il 18 agosto del 1795 all'interno di una cella soprannominata Inferno. De Rolandis fu impiccato il 23 aprile 1796 dopo crudeli torture. Fu un vero e proprio maxiprocesso in cui tra imputati e testimoni sfilarono davanti ai magistrati 290 persone tra cui molte donne. Tra loro Angelica Lorenzini, Beatrice Zamboni, Barbara Borghi e Geltrude Mazzeri, imputate per aver cucito coccarde tricolore.

In tribunale si discuteva della sommossa nata sull’onda della rivoluzione francese a cui aveva preso parte Luigi Zamboni come port drapeau. Tornato nella sua Bologna si mise all’opera per esportare quegli ideali nella sua terra natia. L’inquisitore dopo aver ascoltato gli imputati principali:

 “ oppresso dalla smania di scoprir cose arcane, pensò rivolgere le sue armi contro le donne ch' ei sospettava aver lavorato nella confezione delle insegne. L'Angelica Lorenzini Montignani amante di De Rolandis e la Barbara Borghi mantennero, malgrado i tormenti, il preconcetto sistema di assoluta negativa. Ma la Geltrude Mazzari vedova Pironi esaminata ad istanza del Bargello, confessò « aver avuto dalla Zamboni del cavadina verde, e della roba bianca e rossa per far roselline della grandezza circa due volte un baloccone di rame » Soddisfatto il Pistrucci da tale deposizione, immantinente chiamò a sé la Brigida Zamboni, e dopo averla severamente ammonita e minacciata, sullo stesso argomento la interrogò; ed ella credendo pur di qualche guisa appagare le inquisitoriali ricerche ingenuamente disse: essere nelle rosette « col bianco mischiato il rosso e il verde per uniformarsi al dipinto della camera di Casa Savioli per la quale eran fatte » Ah! non avess' Ella pronunciato giammai il nome di questa Senatoriale Famiglia! La cieca e feroce ira del processante, la incalzò e strinse con tale una furia di domande, per cui, la calma e ripetuta risposta di non voler dire ciò non poteva, fece traboccare la bile del Pistrucci in uno sfogo di crudeltà, consegnando la povera donna a' suoi manigoldi — i quali dopo averla inutilmente straziata, ebbero a trasportarla fuor dei sensi, nel suo carcere. Lungo e doloroso troppo sarebbe il riferire le azioni crudeli e le inumane barbarie usate dal Fisco in questo processo.(…)[1]

Il 18 agosto la città era deserta, popolata soltanto di sbirri. Zamboni era morto. Assassinato, dicevano le voci di città. In tribunale il processo andava avanti, si attendeva la sentenza. Fuori del tribunale si allestiva la forca.

“Gli Uditori e sott'Uditori del Torrone, i Notai, gli Scrivani si erano adagiati sui loro seggioloni e sugli scanni, intanto che gli uscieri avean riempita la tavola di carte, di oggetti riguardanti il processo, di armi, coccarde, proclami ecc., quando una voce annunzia: — Sua Eminenza Reverendissima il signor Cardinale Presidente.Si alzano in piedi tutti e s'inchinano profondamente. — Preceduto da quattro svizzeri con alabarde e da torce a vento, entra con passo spedito e grave il Cardinale, in piena porpora e colla croce d'oro sul petto, il quale dopo aver coll'indice ed il medio in alto trinciato a destra ed a sinistra le così dette benedizioni, e postosi tre minuti in ginocchio in atto di recitare orazioni innanzi al Cristo, — va a sedersi nel mezzo, sussurrando a bassa voce al Pistrucci — « Sbrighiamoci, che il caldo mi da noia. » Ultimi rimanevano il vecchio Giuseppe Zamboni e le donne!Dopo brevi istanti di tormenti l'infelice padre era fuor di sé, abbattuto, contraffatto, moribondo, e su d'una lettiga veniva altrove condotto. Alla Brigida Zamboni non fu possibile ad alcuno avvicinarsi per avvinghiarla; — della propria libertà approfittando, scagliava calci, e pugni, e morsi come una fiera; — gli occhi e le parti più sensibili de' manigoldi percuoteva; finchè assalita da orribili convulzioni cadde, e si rese necessario lo sforzo di parecchi uomini per afferrarla e ritornarla alla prigione dacchè sembrava la di lei vita animata da forza soprannaturale e divina(1)! Così terminò questa seduta che ultima chiuse gli spaventevoli orrori di un' epoca in cui uomini in nome di Dio e della Giustizia commettevan i più atroci misfatti che abbian disonorata l'umanità. Da cotesti ribaldi e da cotestie! ribalderie giudicate dalla civiltà, torceremmo altrove lo sguardo, se non fossimo tratti a considerare la storica verità che ad usare, sostenere e difendere qualunque vergogna, iniquità, e nefanda opera sociale, s'incontra ognora l'Autorità del sacerdozio di Roma, la quale come paganamente nel medio evo combatteva per la schiavitù (2), così nei moderni tempi combatte contro ogni santo principio. — Per vincere l'ostilità guerra non basta la fede nella ragione e nella virtù, ma è necessario soggiogarla come sempre e risolutamente — colla forza. ll processo volge al suo termine.[2]

Si chiude così il XVIII secolo e le speranze vengono riposte in Napoleone, ma presto arrivò la disillusione e la nuova ripesa della cospirazione. Finita l'epoca napoleonica il Tricolore scomparve dalla scena ufficiale militare e politica d'Europa, mentre, con il Congresso di Vienna e la firma della Santa Alleanza, vi fu il ritorno dei vecchi sovrani assolutisti in Europa e in Italia. Ma, mentre nessuno degli otto Stati in cui fu divisa la penisola mantenne il Tricolore, la restaurazione non lo ammainò nei cuori dei patrioti. Così per circa trent'anni e sino al 1848 il tricolore divenne il simbolo di tutti coloro che si batterono per l'unità, l'indipendenza e la libertà d'Italia. Così nei moti del 1817 a Macerata, in quelli del 1820 a Nola, a Napoli, a Messina e a Palermo, durante i processi lombardi contro Maroncelli, Pellico e Confalonieri, e nella rivolta in Piemonte nel 1821, così nelle insurrezioni e condanne a Modena e nel Cilento; così nei moti del 1831 in Romagna, nelle Marche e un po’ dovunque nella Penisola. E il giuramento della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, che nel 1833 aveva ben 60.000 iscritti, veniva pronunciato davanti al Tricolore, issato in tutti i tentativi insurrezionali degli anni trenta.

Il tricolore viene di nuovo sventolato durante i moti liberali del febbraio 1831 che, scoppiati a Modena per iniziativa di Ciro Menotti, si estendono a Parma e a Bologna. A Reggio torna per questo anche Giuditta Bellerio Sidoli, vedova del patriota reggiano Giovanni Sidoli. Fu lei a consegnare alla neo costituita "Guardia Civica" la bandiera tricolore poi esposta sul palazzo del municipio e oggi conservata nel museo del Tricolore. Dopo il fallimento dell'insurrezione, per sfuggire alla repressione austriaca, Giuditta prese nuovamente la via dell'esilio: prima a Lugano e poi a Marsiglia. Nella sua casa, in rue de Féréol, ospitò molti esuli italiani e, tra questi, Giuseppe Mazzini, del quale divenne amante e collaboratrice politica, con lui un anno dopo i moti fondò il giornale politico La Giovine Italia, assumendone il ruolo di responsabile e contabile. Nel 1831, dunque, Giuditta, dopo il fallimento dell'insurrezione, riusci a scampare la prigionia grazie alle inclinazioni duchiste della famiglia. Fu invitata a lasciare la città. Restò, invece a Modena la contessa Rosa Testi Rangoni. Il 13 giugno di quell’anno il Tribunale Statario la condannò alla reclusione per anni tre in fortezza perché "colpevole di aver cucito su commissione del capo ribelle Ciro Menotti una bandiera di seta, di colore bianca-rosso-verde, sapendo che la medesima doveva servire alla rivolta". La pena fu poi commutata dal duca Francesco IV nella reclusione per altrettanto tempo nel convento delle Mantellate di Reggio. Enrichetta Castiglioni invece mori nelle prigioni veneziane, vittima dell’Austria e del duca Francesco IV. I decenni passano e le donne chiamate a raccolta soprattutto da Mazzini cominciano ad organizzarsi in associazioni e società segrete. Molte di loro, per lo più appartenenti a quella borghesia cittadina che rappresentava il cuore della mobilitazione, avevano fatto anche di più, impegnandosi in prima persona nell' attività cospirativa, come «giardiniere» nella Carboneria o nella Giovane Italia: raccolte di fondi, sottoscrizioni, proclami, scritti, messaggi patriottici circolavano più facilmente nelle loro mani e sotto le loro gonne. Molte erano state costrette all' esilio; altre erano state denunciate e processate. Arriva poi in tutta Europa il 1848. In Italia si susseguono le insurrezioni. Le donne svolgono un ruolo di primo piano: da Palermo a Venezia, da Milano a Brescia, l' insurrezione le aveva viste mobilitate in prima linea con gli uomini, a costruire barricate, a confezionare cartucce, a fare da vivandiere, a organizzare infermerie e ospedali. A Roma Cristina di Belgiojoso, Giulia Bovio Paolucci ed Enrichetta Di Lorenzo avevano creato il Comitato di soccorso ai feriti che arruolerà centinaia di infermiere scandalizzando gli ambienti clericali. A Venezia  la bandiera austriaca viene ammainata. Daniele Manin e Nicolò Tommaseo liberati. La contessa Montalban Comello avvia i festeggiamenti esponendo il tricolore al balcone del suo palazzo, che come altre donne aveva cucito ella stessa. “ Ed allora dal poggiolo del patrio palazzo Tiepolo videsi inaspettato la prima volta sventolare il vessillo italiano….Era la donna benedetta della nostra causa, la contessa Montalban Comello, che inalberava la prima e innanzi il tempo voluto il nazionale vessillo, al comparir del quale, quasi in un batter di ciglia, videsi dai balconi delle case circostanti spiegar tutte le tricolori bandiere” Dal palazzo Maurogonato ne sventolava una che riportava la scritta “A Daniele Manin, il primo pensiero di Venezia liberata”Le feste si susseguono ancora sino all’arrivo di Giobatta Giustinian che dventerà podestà della città. La repubblica durerà 17 mesi. ma i moti e le idee mazziniane riuniranno le donne in associazioni sempre più operative per la raccolta dei fondi a sostegno della causa. Molte avevano pagato questo impegno con il carcere e con la vita stessa. Nel 1853 il 30 giugno le contesse di Montalban-Comello e Lonigo-Calvi comparvero davanti al tribunale di Venezia, inquisite per alto tradimento. Erano state sorprese a vendere souvenir garibaldini e raccogliere fondi per i fuoriusciti. L'accusa fu derubricata in turbata tranquillità ma non poterono evitare sette mesi di prigione. Maddalena di Montalban, scoperta con altre carte, finì al carcere duro. Il 21 0ttobre 1866, mentre a piazza S. Marco a Venezia sventolava il primo tricolore e si preparano i festeggiamenti del plebiscito, una folta schiera di donne entra nella piazza sventolando dei fazzoletti bianchi. Una manifestazione di festa ma anche di protesta. Quelle donne manifestavano la loro delusione e l' umiliazione  per l’ esclusione «da tutto ciò che si attiene al governo della cosa pubblica», come scrivono a chiare lettere in un messaggio inviato al re. Era la prima manifestazione suffragista della storia d' Italia, che prende corpo nel momento costitutivo dello Stato nazionale; altre azioni si registrano in vari luoghi della penisola al momento dei plebisciti, nel 1860 e nel ' 66, dal Nord al Sud, con modalità e forme diverse, sospese appunto tra la festa e la protesta. Le donne avevano contribuito in modo concreto e determinante alla costruzione dello Stato nazionale, non solo con il simbolico cucire le bandiere ma via via negli anni impegnandosi in un processo pedagogico di consapevolezza e di identità nazionale, di mobilitazione delle coscienze, di assunzione di nuovi modelli familiari e individuali. Una rinascita morale e civile che si rintraccia, nelle lettere, nelle poesie, negli scritti e nelle azioni simboliche sempre più numerose e frequenti. Insomma in tutta quell' azione sotterranea e impalpabile fatta di mobilitazione, di educazione, di trasformazione dei comportamenti, dei sentimenti, della religiosità. Così erano andate a costruire l' identità nazionale nella quotidianità, a tessere dunque non solo le bandiere ma l' unità del Paese. Fatta l' Italia, a qualcuna di loro, per lo più notabili e aristocratiche, toccò l' onore di una medaglia o di un anello a pietre tricolori, come “benemerite della patria” ma non il voto che arriverà solo nel 1946.

 

 



[1] Augusto Aglebert, Primi martiri della libertà e l’origine della bandiera tricolore Congiura emorte di Luigi Zamboni e G.B. De Rolandis in Bologna tratta da documenti autentici, Giuseppe Mattinuzzi editore, Bolgna 1880.
 
[2] idem
 

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