ARTEMISIA GENTILESCHI IN MOSTRA A ROMA



Simon Vouet, ritratto di Artemisia Gentileschi (particolare


“L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità...” (Roberto Longhi)

Attraverso un arco temporale che va dal 1593 al 1653,  la mostra inaugurata oggi a Palazzo Braschi svela gli aspetti più autentici di Artemisia Gentileschi, pittrice di raro talento e straordinaria personalità. Un centinaio le opere sue e di altri grandi protagonisti della sua epoca, come Cristofano Allori,Simon Vouet, Giovanni Baglione, Antiveduto Gramatica e Jusepe de Ribera.

Pittrice di prim’ordine, intellettuale effervescente, Artemisia, non si limitò alla gran maestria tecnica in pittura, ma  seppe trasformarla dopo aver assorbito il meglio dai suoi contemporanei, così come dagli antichi maestri. La parabola umana e professionale di Artemisia appassiona il pubblico anche perché è vista come un’antesignana dell’affermazione del talento femminile, dotata di un carattere e una volontà unici. Un talento che le consentì, giovanissima, arrivata a Firenze da Roma, prima del suo genere, di entrare all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze; che le fece imparare, già grande, a leggere e scrivere, a suonare il liuto, a frequentare il mondo culturale in senso lato, corrispondere con Galileo Galilei.
Una volontà che le consentì di superare le violenze familiari, le difficoltà economiche; una libertà la sua che le permise di scrivere lettere appassionate al suo amante Francesco Maria Maringhi, nobile raffinato quanto tenero e fedele compagno di una vita. Una tempra la sua, che pure sotto tortura (nel processo che il padre intentò al suo violentatore Agostino Tassi) le fece dire: “Questo è l’anello che tu mi dai et queste le promesse”, riuscendo così a ironizzare, fino al limite del sarcasmo, sulla vana promessa di matrimonio riparatore.
Artemisia per anni, per decenni, complice la biografia parecchio romanzata di Anna Banti, è sembrata essere solo una bambina violata dall’amico e sodale del padre, quell’Agostino Tassi che non fece un solo giorno di esilio o galera. Sembrava Artemisia, uscita dalle pagine travagliate della grande storica dell’arte, non voler altro che l’approvazione del padre, come pittrice, e il suo amore, come figlia. Sembrava Artemisia far ricorso all’orgoglio per salvare la sua vocazione, al punto da allontanare l’unico uomo amato, il padre della figlia, il vicino di casa Pierantonio Stiattesi, sposato per cancellare la macchia dello stupro dalla sua reputazione di donna. E sembrava aver avuto un’unica figlia, trascurata e negletta, che detestava colori e pennelli e odiava quella madre che affetto e attenzioni non poteva dare, troppo impegnata a farsi strada in un mondo fatto solo di uomini, impossibilitata a svelare emozioni, pena il crollo della sua autorevolezza. Una figlia che, con gli occhi e le parole, pare esser sempre pronta a rimproverarle modi e costumi, che preferisce la pudicizia delle monache e la tranquillità economica di un matrimonio di interesse.
E parte Artemisia, attraversa mezza Europa per giungere alla corte della Regina di Inghilterra, dove si trova il padre che la accoglie, ma al tempo stesso è geloso del suo successo. La corte è tetra e fredda, il padre se ne sta nascosto e infine muore, tra le sue braccia, e a lei non resta che tornare indietro e forse morire sola in una qualche locanda prima di arrivare nel porto di Napoli. Artemisia non è questa, non lo è mai stata. Il tempo, i documenti, le carte uscite fuori dagli archivi, e forse ancora molte da trovare, han reso giustizia a una donna, a un’artista, a un’eroina che non si fa scrupoli perché solo in questo modo è possibile esser donna e pittrice in quell’epoca, in quel mondo. Non era affatto bambina quando conobbe il Tassi che amò per quasi un anno. E certo il processo ci fu e alla fine non si sposarono. Sposò lo Stiattesi ma chi tra i due ci guadagnò, non è chiaro. Amò furiosamente un suo coetaneo alla corte di Firenze, il nobile Francesco Maria Maringhi, come testimoniano le sue lettere appassionate, che la salvò dall’accusa di furto di colori quando scappò con i figli, che molti ne ebbe, da Firenze a Roma. Cambia case, si fa nuovi a amici, non paga i debiti, pur di lavorare e di essere grande tra i grandi del suo tempo. Si fa agente di se stessa. Ha a che fare coi grandi d’Europa, raccomandando perfino famiglia e parenti, rimandando consegne di lavori, scrivendo lettere tanto supplichevoli quanto furbe.
 “Heic Artemisia” si legge sulla sua lapide del suo sepolcro in San Giovanni dei Fiorentini. Perché da questo momento è solo Artemisia, la grande pittrice.








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